PERDONARE

03.07.2024

LE LETTURE DEL MATTINO

 Condividiamo il breve brano "La pratica del perdono autentico" di Erza Bayda tratto dal libro "Star bene in acque torbide. Una guida per trovare pace nel caos quotidiano"


Cosa significa perdonare? C'è qualcuno che non volete perdonare? 

Spesso il perdono viene macchiato dall'idea che ci dovrebbe essere una sorta di magnanima accettazione degli altri, anche se ci hanno fatto del male. Questa visione del perdono non è la pratica del perdono. Perdonare è praticare con il risentimento e guarirlo, con quel risentimento che blocca il desiderio di vivere mossi dalla nostra vera natura. Perdonare è allentare la presa sull'unica cosa che non vorremmo mai lasciar andare: la sofferenza del risentimento. 

Nella pratica del perdono lavoriamo per comprendere le nostre reazioni emotive. Pratichiamo notando cosa ostacola il perdono reale. Il perdono autentico implica sperimentare il nostro dolore e, quindi, il dolore della persona da perdonare. Questa esperienza può aiutarci a dissolvere l'illusione della separazione tra noi e gli altri. 

Pensate a qualcuno verso il quale provate rabbia, amarezza o risentimento: il vostro partner, i vostri genitori (vivi o morti che siano), uno dei vostri figli, il vostro capo, un amico, qualsiasi persona risvegli nel vostro cuore una viva agitazione. Per rendere più esperienziale la comprensione della pratica del perdono, pensate a quella persona mentre leggete il capitolo. 

Quando la richiamate alla mente, cosa sentite? Portare rancore spesso ha il sapore di un conto non saldato: "Il tal dei tali mi ha offeso; perciò, in qualche modo, è in debito con me". Mentre ci aggrappiamo al sentimento duro, amaro, che qualcuno è in debito con noi, Potremmo sentire anche il bisogno di fargliela pagare. A mano a mano che il risentimento si inasprisce, l'atteggiamento 'gliela farò pagare!' prende il sopravvento e ci indurisce. Puntelliamo il nostro cuore indurito con un falso senso di potere e di giustizia che si accompagna al risentimento.

Se qualcuno chiedesse a un insegnante spirituale: "Cosa devo fare di tutto il rancore che provo contro il mio amico?", l'insegnante potrebbe rispondere: "Non va bene portare rancore. Perché non lasci andare il risentimento?". Ma possiamo lasciarlo andare? Spesso non abbiamo questa scelta, anche quando sappiamo quanto il risentimento ci faccia del male. Se potessimo semplicemente lasciarlo andare, non saremmo paralizzati nel suo spasmo. Lasciar andare non è una vera pratica. È una pratica immaginaria basata sull'ideale di come ci piacerebbe che fossero le cose.

Il perdono autentico ha tre stadi

Il primo stadio consiste nel semplice riconoscere quanto non vogliamo perdonare l'altro. Ci permettiamo di sperimentare fino a che punto preferiamo aggrapparci al risentimento, alla rabbia e all'amarezza, anche quando vediamo come tutto ciò ci escluda da una vita autentica. Vediamo quanto resistiamo alla nostra apertura intrinseca, scegliendo di rimanere bloccati nella durezza. Osservando con la consapevolezza non giudicante quanto resistiamo al perdono, vediamo chiaramente, e non allo scopo di sentirci in colpa (cosa che accadrebbe se seguissimo l'ideale secondo il quale non dovremmo provare risentimento), ma per permetterci di sperimentare la resistenza per quello che è. Dobbiamo sperimentare nel corpo quali sensazioni dà il non essere disposti a perdonare. Dobbiamo vedere i nostri giudizi egocentrici chiaramente come pensieri, invece di accettarli come verità oggettive. Rimanere con l'esperienza fisica della resistenza permette che si sviluppi gradualmente un senso di spaziosità, entro il quale si può rilassare il pugno serrato del risentimento. Non possiamo passare al secondo stadio del perdono fino a quando non abbiamo compreso a fondo e sperimentato, nel corpo e nella mente, fino a che punto non siamo disposti a perdonare. 

l secondo stadio è applicare la consapevolezza alla reattività emotiva nei confronti della persona verso la quale proviamo risentimento: per sperimentarla senza giudizi, per vederla con mente aperta, Mentre visualizziamo la persona che ci ispira il risentimento, notiamo quali reazioni emotive sorgono. Ci chiediamo: "Cos'è questo?" È rabbia, risentimento, amarezza, paura, angoscia? Qualsiasi cosa s presenti, ci limitiamo a sperimentarla nel corpo. Se ci perdiamo nei pensieri, nei ricordi o nelle giustificazioni, continuiamo a tornare a quanto sentiamo nel corpo. Dov'è l'oppressione, dove la contrazione? Qual è la consistenza di quello che sento? Rimaniamo con la consapevolezza delle reazioni fisico emotive per tutto il tempo necessario a prendere dimora in esse. Questo significa rilassarci nelle nostre reazioni per quanto dolorose possano essere. A un certo punto non avremo più bisogno di mandarle via.

Il terzo stadio della pratica del perdono è esprimere il perdono a parole. E importante rendersi conto che pronunciare queste parole non ha nulla a che fare con lo scusare le azioni commesse. Significa perdonare la persona, non quello che ha fatto. Significa capire che l'azione è scaturita dal suo dolore. E non lo facciamo ricercando il dolore dell'altro, ma prestando attenzione al nostro dolore. Una volta che ci siamo occupati del nostro dolore siamo più aperti a vedere con sincerità il dolore altrui. A questo punto, esprimere il perdono a parole ci aiuta ad aprire il cuore. Cercare di aprirsi al dolore dell'altro prima di attraversare i due stadi precedenti della pratica del perdono (vedere chiaramente la resistenza e prendere dimora nell'esperienza corporea di essa) non funzionerà; sarebbe come stendere un velo di costrutti mentali sopra i nostri sentimenti rimossi. 


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